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Ne parliamo con Enrico Gargiulo

Ne parliamo con Enrico Gargiulo

Una intervista con Enrico Gargiulo, sociologo esperto di welfare, cittadinanza e politiche sociali presso l'Università del Piemonte Orientale, sull'economia della collaborazione e della condivisione e sul percorso #CollaboraToscana.

Quali sono gli sviluppi più promettenti che si sono aperti con l’economia della condivisione e della collaborazione?

Non sono un esperto e quindi non affronto il tema dal punto di vista tecnico, né tantomeno giuridico. Proverò piuttosto ad inserire il tema dell’economia della condivisione e della collaborazione all’interno di questioni più ampie, quali quelle della partecipazione e del terzo settore.

Con questa premessa, dal mio punto di vista, gli sviluppi più promettenti sono gli sviluppi comuni a tutte le forme di economia che includono la dimensione partecipativa e che possono quindi portare una riattivazione dal basso. Se faccio un paragone con altri momenti storici recenti in cui si sono sviluppate forme di economia con le persone comuni e la società civile al centro, vedo simili promesse, simili aspetti positivi e simili rischi. Personalmente per quella che è la mia prospettiva e il mio modo di fare ricerca, cerco sempre di partire dai rischi, conducendo una analisi critica dell’esistente.

E quindi parliamo delle possibili criticità e dei rischi. Quali sono secondo te gli elementi da tenere in considerazione da questo punto di vista?

Ritengo che il rischio maggiore sia che nonostante l’entusiasmo per la partecipazione delle persone comuni e dei semplici cittadini, questi restino estranei al processo. Qualcosa di simile è avvenuto alla fine degli anni ‘90 e all’inizio del 2000 con la legge 328 del 2000 che introduceva la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini alla programmazione delle politiche socio-sanitarie e ai Piani di Zona. Nelle intenzioni e nella retorica, i soggetti non pubblici non venivano coinvolti solo per erogare servizi, ma anche per costruire le politiche e per scegliere le priorità. Tra i soggetti chiamati in causa non vi erano solo quelli organizzati e formalizzati, ma anche i semplici cittadini. Nonostante queste premesse, molti studi sui Piani di Zona hanno poi dimostrato come il semplice cittadino non si sia mai neanche seduto ai tavoli tematici istituiti e come a spostare l’equilibrio delle politiche siano stati sempre i soggetti più forti e organizzati.

Il rischio è che, quando si parla di forme di costruzione di modelli economici e politici che coinvolgono tutti, dando voce dal basso alla società civile, alla fine non siano davvero coinvolti tutti, ma solo alcuni, i più forti, quelli che hanno interessi specifici.

Pensiamo ad esempio a un contesto urbano in cui si svolge un processo di rigenerazione di un parco della città, al quale alcuni studenti di liceo – magari nell’ambito delle attività previste dalla cosiddetta Alternanza scuola/lavoro introdotta da “La buona scuola” – condurranno una ricerca-intervento per capire come intervenire sul parco e per partecipare alla sua manutenzione e sistemazione. Cioè lavoreranno gratis per fare una ricerca con gli stakeholders e per rigenerare il parco.

Qui vedo due rischi. Il primo è: chi sono questi stakeholders? Come vengono selezionati? Come si organizzano i momenti di confronto? Come si scelgono gli orari? Come saranno messi in condizione i cittadini di esprimere la propria voce su quello spazio? Tra i partecipanti potrebbero esserci agenzie immobiliari, attori privati, commercianti, abitanti, etc. Come si garantisce che chi è più forte non sposti il percorso nella direzione desiderata?

Giulio Moini ha scritto “Teoria Critica della partecipazione”, un testo nel quale ha messo in luce come le politiche partecipative per includere la cittadinanza siano di fatto molto rischiose. Un processo partecipativo può sdoganare decisioni difficili, può stornare il dissenso attorno a decisioni impopolari, può costruire arene che escludono il conflitto sociale, tenendo fuori gli attori più radicali, può depoliticizzare le poste in gioco, eliminando la dimensione pubblica attraverso il coinvolgimento del “privato cittadino”. È così che un processo partecipativo può paradossalmente contribuire a proteggere il pubblico nell’effettuare una scelta controversa, rendendola il prodotto della volontà della cittadinanza.

Il secondo rischio è lo stesso che si corre nel terzo settore, cioè che si travestano attività lavorative non pagate in forme di azione civile, di volontariato, di disponibilità per il bene comune. Nei discorsi attorno a questo tipo di attività c’è spesso questa invocazione della sussidiarietà orizzontale, a cui il singolo deve dare sostanza anche attraverso attività lavorative per il bene che non è più chiamato ‘pubblico’ ma diviene ‘comune’. Il rischio è che diventi sempre più scivoloso il confine tra lavoro e volontariato. Se vengono per altro impiegati ragazzi, ci si deve chiedere: sono davvero volontari? Fino a qualche anno fa questa attività sarebbe stata svolta a pagamento. Spesso sono anche i richiedenti asilo ad essere coinvolti. Viene chiamata economia della collaborazione ed è molto bello se è cura condivisa, ma non se diviene un ricatto, se c’è la pressione di gruppo, se ci si aspetta che questo succeda per forza.

Chiamare le cose con il loro nome è fondamentale, bisogna fare attenzione a distinguere e a non mettere nello stesso contenitore cose molto diverse. Io produco qualcosa che è utile a tutti ma non ne ricavo un reddito. Sto producendo valore economico che non è retribuito attraverso un salario.

Il confine è molto labile ed è direttamente correlato alla posizione sociale della persona coinvolta: le asimmetrie di potere sono determinanti, anche perché lo scambio collaborativo spesso coinvolge le categorie più svantaggiate della popolazione ed il rischio di disuguaglianze, ricatti e stigmatizzazioni è alto. È essenziale che l’attore pubblico abbia chiare le condizioni di accesso ai servizi collaborativi o condivisi, tenendo presente che la situazione strutturale e sociale in cui l’Amministrazione agisce è complessa e le asimmetrie sono senz’altro presenti.

L’economia della condivisione viene spesso presentata e percepita come un qualcosa di positivo e pacifico, ma, come è stato già ampiamente dimostrato dai fatti, non è così, i conflitti esistono: tra datore di lavoro e lavoratore, tra categorie professionali e privati, tra le diverse anime dei cittadini che utilizzano gli spazi pubblici, etc. Se la tendenza di alcuni è di ignorare questi conflitti o fare finta di non vederli, ritengo che sia invece necessario affrontarli direttamente, trovando una soluzione equilibrata per le parti coinvolte. E per trovare una soluzione, la prima cosa che un attore pubblico deve fare è capire quale sia il rapporto di potere tra gli attori presenti.

Qualunque forma di costruzione dell’economia che includa e dia potenzialmente voce a chi abita il territorio è in linea teorica positiva e democratica, la questione è che questa ha spesso una dark side. L’ente pubblico deve fare attenzione a chi effettivamente riesce a partecipare a queste nuove forme di economia. Per coinvolgere tutti bisogna prima di tutto sapere se tutti hanno davvero l’opportunità di partecipare.

Un Governo Regionale ti ascolta: quali sono a tuo parere le azioni prioritarie per una gestione consapevole dell’economia collaborativa?

L’attore pubblico dovrebbe controllare, regolare, guidare. Ritengo che lo slogan “né pubblico né privato, ma comune” sia insidioso. Il pubblico deve svolgere un ruolo pubblico. Un conto è includere gli attori privati con delle regole, un altro è considerare pubblico e privato come due entità che possono ritenersi uguali.

E questo mi porta a mettere l’accento sul rischio di operare in assenza di una dimensione politica. In passato, quando si pensava alla società civile, a come agisce e a come si muove, era evidente come esistesse un terreno di confronto tra interessi contrapposti. Oggi, il cittadino attivo è un’immagine assai depoliticizzata, così come l’attore pubblico: in una società che non ha reali fratture, le decisioni si possono prendere collettivamente, e arrivare insieme alla costruzione del bene comune, senza preoccuparsi ad esempio di chi sia effettivamente la proprietà. Ma questa visione è realistica? Dov’è la politica? E il conflitto? Come si può conciliare questa dimensione depoliticizzata quando a dover agire è un Ente Pubblico, come la Regione?

Per questo ritengo che una Regione debba porsi il problema di come gestire la questione della politica e di come gestire il conflitto, di come gestire le asimmetrie di potere e le diseguaglianze, di come relazionarsi con attori privati che sono disposti a co-decidere. Poiché fare politica significa decidere cosa fare, e se a questa decisione partecipano attori privati senza distinzione, profit e no-profit, cittadini e portatori di interesse, è indispensabile che l’attore pubblico si interroghi su questi temi.

(Testo riadattato da una intervista per il percorso #CollaboraToscana)

 

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